Le pratiche commerciali sleali costituiscono, ad oggi, uno dei problemi percepiti con maggiore preoccupazione dagli attori della filiera agroalimentare.
Cosa cono le pratiche commerciali sleali
Si tratta, in sostanza, pratiche interaziendali che si discostano dalla buona condotta commerciale, sono in contrasto con i principi di buona fede e correttezza e sono solitamente imposte unilateralmente dal partner commerciale più forte. Tale situazione genera differenze che vengono poi scaricate sull’anello più debole della filiera, solitamente i produttori agricoli. Secondo la Commissione europea, infatti, le aziende del settore agricolo e della trasformazione alimentare perdono annualmente tra 2,5 e 8 miliardi di euro a causa delle PCS.
La norma in vigore
La norma sinora in vigore aveva un campo di applicazione limitato alle pratiche commerciali sleali realizzate nei confronti dei consumatori e non anche quelle relative agli operatori stessi della filiera.
La nuova direttiva sulle pratiche commerciali sleali
La tutela di tali soggetti è, invece, prevista dalla direttiva UE sulle pratiche sleali (COM (2018) 173), approvata dal PE, con 589 voti favorevoli, 72 contrari e 9 astensioni.
La disposizione appena menzionata, che estende il proprio campo di applicazione sia ai prodotti agricoli che ai servizi accessori, evidenzia che “nella filiera agricola e alimentare sono comuni squilibri considerevoli nel potere contrattuale tra fornitori ed acquirenti di prodotti agricoli e alimentari“.
Lo scopo della direttiva
Lo scopo della direttiva è quello di porre un rimedio ai casi in cui la filiera agroalimentare mostra maggiori debolezze proteggendo gli agricoltori. Le pratiche commerciali sleali contemplate dalla disposizione in commento sono:
- i ritardi nei pagamenti per i prodotti deperibili (oltre i 30 giorni) e non deperibili (oltre i 60 giorni);
- le modifiche unilaterali e retroattive dei contratti di fornitura;
- la cancellazione degli ordini di prodotti deperibili con breve preavviso;
- il pagamento per il deterioramento dei prodotti già venduti e consegnati all’acquirente;
- l’imposizione di pagamenti per servizi non correlati alla vendita del prodotto;
- il rifiuto di concedere un contratto scritto se richiesto dal fornitore;
- l’abuso di informazioni confidenziali del fornitore da parte dell’acquirente;
- le ritorsioni commerciali o la sola minaccia nel caso in cui il fornitore si avvalga dei diritti garantiti dalla direttiva;
- il pagamento da parte del fornitore per la gestione dei reclami dei clienti.
Oltre a quelle sinora menzionate, la direttiva prevede anche che ulteriori pratiche, quali la restituzione da parte dell’acquirente di prodotti alimentari invenduti o l’imposizione di un pagamento per garantire o mantenere un accordo di fornitura relativo a prodotti alimentari, ammesse solo nel caso di sussistenza di un accordo iniziale tra le parti chiaro e non ambiguo.
I soggetti interessati
La tutela riguarda tutti produttori agricoli di piccole e medie dimensioni (anche in forma aggregata) e altre piccole e medie imprese fornitrici della filiera. In particolare, le nuove norme proteggeranno i fornitori con un fatturato annuo inferiore a 350 milioni di euro. Tali fornitori saranno suddivisi in cinque sottocategorie (con un fatturato inferiore a 2 milioni di euro, 10 milioni di euro, 50 milioni di euro, 150 milioni di euro e 350 milioni di euro), con la protezione più ampia per i più piccoli.
La direttiva anti-UTPs (‘Unfair Trading Practices’) deve ora essere approvata dal Consiglio prima di poter entrare in vigore.
Data la velocità con cui si muove il mercato, la Commissione è tenuta a valutare, entro quattro 4 anni, l’applicazione della Direttiva e, ove necessario, a proporne una revisione.