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Pasta: le sentenze degli anni ’80 e ’90

Pochi ne sono a conoscenza ma la pasta, negli anni ’80, è stata oggetto di due importanti decisioni della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale.

Le origini della controversia “pasta”

Nel nostro Paese, infatti, la Legge 4 luglio 1967 nn. 580[1]  aveva vietato la vendita e la produzione per la vendita di pasta prodotta con grano tenero o con una miscela di questo e di grano duro. Il divieto, dunque, era esteso sia alle imprese italiane, che non potevano produrre e commercializzare tale prodotto, che alle imprese di altri paesi europei, che non potevano importarlo nel nostro Paese.

La prima decisione del 1988

La Corte di Giustizia, intervenendo sul punto con la decisione del 14 luglio 1988, relativa alla causa C-90/86, ha posto in evidenza l’incompatibilità di tale disposizione con il diritto comunitario evidenziando che non poteva rinvenirsi alcuna giustificazione, sia sotto il profilo della tutela degli interessi dei consumatori che sotto quello della tutela della sanità pubblica. Nel dettaglio, il giudice europeo ha stabilito che:

1. L’ estensione, ad opera di una normativa nazionale sulle paste alimentari, ai prodotti importati del divieto di vendere paste prodotte con grano tenero o con una miscela di grano tenero e di grano duro è incompatibile con gli artt . 30 e 36 del Trattato.

Una restrizione del genere non può infatti essere giustificata dall’esigenza di tutelare i consumatori, dato che questa può essere soddisfatta con mezzi meno restrittivi, come l’ obbligo di indicare l’ esatta composizione dei prodotti venduti o l’ adozione di una particolare denominazione riservata alle paste prodotte esclusivamente con grano duro. Le stesse considerazioni valgono per la necessità di garantire la lealtà dei negozi commerciali.

Essa non può nemmeno essere giustificata da motivi di salvaguardia della sanità pubblica, in mancanza di elementi che consentano di affermare che le paste prodotte con grano tenero contengano additivi chimici o coloranti . Un siffatto divieto generale di vendita è in ogni caso in contrasto col principio di proporzionalità.

I problemi della prima decisione

La decisione, come è possibile evincere dalla massima appena riportata, appare però manchevole di un elemento imprescindibile. Essa, infatti, essendo stata emanata dal giudice europeo, ha regolato i rapporti intercorrenti tra le imprese di uno stato membro e la commercializzazione dei loro prodotti in Italia.


A mancare, dunque, è l’aspetto relativo alla produzione e commercializzazione del medesimo prodotto ma di imprese italiane. Come detto, infatti, la norma italiana vietava anche alle imprese aventi sede sul nostro territorio di produrre e commercializzare pasta prodotta con grano tenero o con una miscela di questo e di grano duro. Sulla questione, però, occorreva l’intervento di un giudice interno.

L’intervento della Corte Costituzionale

Ebbene, la Corte costituzionale italiana, con sentenza del 30 dicembre 1997, n. 443, ha interpretato il principio di non discriminazione statuendo che la sua applicazione va intesa, per quanto interessa il legislatore interno e stante la mancata armonizzazione, nel senso di un complessivo adeguamento del diritto interno ai principio di cui agli artt. 30 e seguenti del trattato. Ciò implica che le imprese italiane non possono essere gravate di oneri e divieti che non vengono imposti alle imprese europee. La Corte costituzionale, in particolare, così ha deciso:

La disparità di trattamento tra imprese nazionali e imprese comunitarie, seppure è irrilevante per il diritto comunitario, non lo è dunque per il diritto costituzionale italiano. Non potendo essere da questo risolta mediante l’assoggettamento delle seconde ai medesimi vincoli che gravano sulle prime, poiché vi osta il principio comunitario di libera circolazione delle merci, la sola alternativa praticabile dal legislatore in assenza di altre ragioni giustificatrici costituzionalmente fondate è l’equiparazione della disciplina della produzione delle imprese nazionali alle discipline degli altri Stati membri nei quali non esistano vincoli alla produzione e alla commercializzazione analoghi a quelli vigenti nel nostro Paese.

In definitiva, in assenza di una regolamentazione uniforme in ambito comunitario, il principio di non discriminazione tra imprese che agiscono sullo stesso mercato in rapporto di concorrenza, opera, nella diversità delle discipline nazionali, come istanza di adeguamento del diritto interno ai principi stabiliti nel trattato agli artt. 30 e seguenti; opera, quindi, nel senso di impedire che le imprese nazionali siano gravate di oneri, vincoli e divieti che il legislatore non potrebbe imporre alla produzione comunitaria: il che equivale a dire che nel giudizio di eguaglianza affidato a questa Corte non possono essere ignorati gli effetti discriminatori che l’applicazione del diritto comunitario è suscettibile di provocare.

La Corte, quindi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 30 della Legge 4 luglio 1967, n. 580.


[1] Legge 4 luglio 1967 nn. 580, Diciplina per a lavorazione e commercio dei cereali, degli sfarinati, del pane e delle paste alimentari

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