Certo, non pare necessaria questa newsletter settimanale per evidenziare le enormi e radicali scelte a cui dovremo far fronte nell’immediato futuro. Peraltro questo mezzo, l’avrete compreso, non ha esclusivamente scopo informativo (per quello ci sono il blog e il podcast) ma mi auguro possa diventare luogo utile al dibattito. Dunque, perché non approfittare di questi 25 lettori per innescare una discussione, condividere idee e opinioni, confrontarsi?
Il tema di oggi, quello di cui tutti, più o meno velatamente, parlano in questi giorni, è il rapporto tra autarchia e diversificazione. Eccone, ovviamente dal mio modesto punto di vista, la ragione.
Energia e materie prime
All’origine della questione vi è l’ormai nota questione relativa alla carenza di fonti di approvvigionamento energetico e di materie prime, specie quelle tipicamente commercializzate da Russia e Ucraina. Senza cadere in ripetizioni di dati già più volte proposti altrove, basti pensare che il nostro Paese consuma circa 75 miliardi di metri cubi di gas all’anno e ne conserva 18 miliardi di metri cubi. Di questi, oltre il 40% del metano importato arriva dalla Russia. Ancora, con riferimento all’olio di semi di girasole, la quota di import dall’Ucraina è arrivata al 64,3% (dati Assitol).
Due soli esempi che, però, rendono efficacemente l’idea della sfida che ci attende, a meno di enormi stravolgimenti dell’ultimo minuto. Acclarato ciò, allora, non resta che chiederci quale possa essere la risposta.
Autarchia produttiva
Una delle grandi risposte è quella dell’autosufficienza nella produzione di materie prime. Insomma, produrre tutto internamente per rispondere velocemente alla domanda. Certo, una soluzione emergenziale, si capisce, con riferimento alla quale mi permetterei di evidenziare, però, due aspetti.
Il primo: questo approccio, sprezzante dei – già discutibili – progressi in chiave di sostenibilità fatti con la P.A.C., porterebbe, ad esempio, a eliminare l’obbligo di rotazione delle colture e “riappropriarci della nostra agricoltura“, importando, curiosamente e al contempo, prodotto da paesi sui quali, ad oggi, grava uno specifico divieto dovuto a livelli di fitofarmaco utilizzato troppo alti.
Secondo: tutto interessante se non si considerasse che la produzione di materie prime nel nostro Paese è radicalmente diminuita negli anni soprattutto perché sconveniente o, se volete, economicamente non sostenibile. Su questo fronte la soluzione pare essere il finanziamento pubblico, per sua natura insostenibile nel medio e lungo termine.
Diversificazione e R&D
Durante il periodo più duro della pandemia non pochi clienti hanno visto le proprie produzioni fermarsi perché contavano su un solo canale di commercializzazione del prodotto e quel canale non stava funzionando. In molti casi si trattava del settore HORECA, in altri di quello della GDO, impegnato a ridurre i costi. La risposta a cui abbiamo lavorato insieme è stata una: diversificare. La pandemia, dunque, avrebbe dovuto insegnarci l’importanza di diversificare gli sbocchi commerciali e, per analogia, le fonti di approvvigionamento.
Seconda soluzione alla quale abbiamo lavorato: ricerca e sviluppo. Un’agricoltura e una produzione alimentare ecologicamente sostenibili sono economicamente insostenibili se private delle attività di innovazione necessarie. Questo significa anche sfruttare le opportunità economiche offerte, ad esempio e per citare l’ultimo strumento in ordine cronologico, dai contratti di filiera e distretto.
E ciò, sia chiaro, non significa non offrire una risposta emergenziale ma solo contestualizzarla in un cammino che non può e non deve essere interrotto. Di filiere agroalimentari sostenibili e, quindi, resilienti se ne parla. Tanto. Tantissimo. Da molto tempo. Eppure, a quella che pare essere la più grande sfida dal dopoguerra, siamo arrivati impreparati. Sorge spontanea una domanda: ne abbiamo forse parlato troppo? E se ne abbiamo parlato troppo agendo troppo poco, qual è la strada maestra? Tornare indietro o finalmente agire?