Il termine greenwashing, alla pari di molte altre parole chiave riconducibili al mondo della sostenibilità, è spesso abusato, frainteso, utilizzato impropriamente. Parlare di greenwashing oggi è quasi un obbligo ma, a mio modestissimo parere, dovremmo tornare a dare alle parole l’importanza che meritano e, quindi, mi consentirai di fermarci un attimo, ragionarci e contestualizzare. Il mio, oltre a essere un buon esercizio da svolgere ogni mattina appena svegli, è un suggerimento. Sono, infatti, convinto che potremmo facilmente riscoprire un significato piuttosto adombrato da labili confini e sfumature concettuali di non secondaria rilevanza.
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Cos’è il greenwashing
La Proposta di Direttiva per la responsabilizzazione dei consumatori e la protezione dal greenwashing definisce il fenomeno come “dichiarazioni ambientali ingannevoli” o, ancora come “dichiarazioni ambientali poco chiare o poco circostanziate“. E’ la stessa proposta ad evidenziare, peraltro, che le norme generali in materia di pratiche ingannevoli previste nella direttiva sulle pratiche commerciali sleali possono essere applicate, con valutazione caso per caso, alle pratiche di greenwashing che incidono negativamente sui consumatori. Insomma, pur tenendo in considerazione la carenza di efficacia cogente dello strumento preso in considerazione, mi pare che nulla sia davvero chiaro e circostanziato.
La Treccani definisce il fenomeno come: strategia di comunicazione o di marketing perseguita da aziende, istituzioni, enti che presentano come ecosostenibili le proprie attività, cercando di occultarne l’impatto ambientale negativo. Il focus, in questo caso, è spostato dall’ingannevolezza della dichiarazione all’occultare l’impatto negativo. Una sfumatura di significato non da poco.
La diffusione del greenwashing secondo la Commissione Europea
Lo scorso anno la Commissione Europea e le autorità di tutela dei consumatori hanno esaminato 344 affermazioni apparentemente dubbie, rilevando che:
- in oltre la metà dei casi, il commerciante non aveva fornito ai consumatori informazioni sufficienti per valutare la veridicità dell’affermazione;
- nel 37 % dei casi, l’affermazione conteneva formulazioni vaghe e generiche, come “cosciente”, “rispettoso dell’ambiente”, “sostenibile”, miranti a suscitare nei consumatori l’impressione, priva di fondamento, di un prodotto senza impatto negativo sull’ambiente;
- inoltre, nel 59 % dei casi, il commerciante non aveva fornito elementi facilmente accessibili a sostegno delle sue affermazioni.
In generale, dunque, il report ha evidenziato che il 42% delle dichiarazioni ambientali presenti online è falsa o ingannevole e potenzialmente in grado di configurare una pratica commerciale sleale.
L’indagine dell’ICPEN
L’indagine è stata coordinata anche con l’International Consumer Protection and Enforcement Network (ICPEN), che ha analizzato 500 siti web. L’ICPEN ha pubblicato i propri risultati che mostrano una tendenza analoga, con il 40% di dichiarazioni ingannevoli.
In particolare, l’ICPEN ha evidenziato:
- claims vaghi e linguaggio poco chiaro come, ad esempio, l’utilizzo di “eco” o “sostenibile” riferito a “prodotti naturali” senza un’adeguata spiegazione;
- marchi o loghi con richiami a “eco” non associati ad un’organizzazione accreditata;
- omissione di informazioni al fine di far apparire il prodotto come eco-friendly.
I riferimenti normativi
Ciò posto, però, pare il caso di evidenziare che, al momento, non sono in vigore norme specifiche in grado di regolare il fenomeno del greenwashing e, per questo motivo, occorre far riferimento alle norme generali in materia di pratiche ingannevoli e valutare caso per caso l’incidenza negativa che le dichiarazioni ambientali possono avere sui consumatori.
La prima decisione in Italia
Tra le prime decisioni in Europa figura l’ordinanza cautelare del Tribunale di Gorizia con la quale il Giudice hanno accolto il ricorso d’urgenza presentato da Alcantara. Il brand italiano specializzato nel rivestimento di elementi di autoveicoli, infatti, considerava lesive del proprio business le dichiarazioni di un’impresa concorrente, la Miko s.r.l.. Questa, infatti, nelle proprie campagne pubblicitarie riportava “la prima microfibra sostenibile e riciclabile”, “100% riciclabile”, “amica dell’ambiente”, “scelta naturale” e “microfibra ecologica”.
La decisione sul greenwashing
Il tribunale di Gorizia ha riconosciuto che tali claim ambientali “sono sicuramente molto generici e sicuramente creano nel consumatore un’immagine green dell’azienda senza peraltro dar conto effettivamente di quali siano le politiche aziendali che consentono un maggior rispetto dell’ambiente e riducano fattivamente l’impatto che la produzione e commercializzazione di un tessuto di derivazione petrolifera possano determinare in senso positivo sull’ambiente e sul suo rispetto”. Il Tribunale ha concluso evidenziando che le “dichiarazioni ambientali ‘verdi’ devono essere chiare, veritiere, accurate e non fuorvianti, basate su dati scientifici” e inibendo “con effetto immediato, in via diretta e indiretta, la diffusione dei messaggi pubblicitari ingannevoli”, sia quelli oggetto di denuncia dell’attrice, sia “ogni informazione non verificabile sul contenuto di materiale riciclato nel prodotto Dinamica, sia nella versione in italiano che in inglese, in qualsiasi forma ed in qualsiasi contesto e sito, a mezzo internet su qualunque sito e social media, reti televisive, quotidiani e stampa, riviste, messaggi promozionali televisivi, volantini e in ogni caso veicolati con qualsiasi canale di comunicazione, online e offline, ordinandosi l’immediata rimozione da ogni possibile contesto dei predetti messaggi pubblicitari”.
Il green claims code in UK
L’Autorità UK, per supportare i consumatori nel comprendere e identificare correttamente le dichiarazioni ambientali, ha creato e pubblicato una serie di suggerimenti racchiusi nel “green claims code”. Si tratta di suggerimenti pensati per incoraggiare i consumatori a porsi alcune semplici domande.
Ecco le tredici riflessioni da fare, quindi, prima di acquistare un prodotto in base ai claims ambientali:
- The claim is accurate and clear for all to understand
- There’s up-to-date, credible evidence to show that the green claim is true
- The claim clearly tells the whole story of a product or service; or relates to one part of the product or service without misleading people about the other parts or the overall impact on the environment
- The claim doesn’t contain partially correct or incorrect aspects or conditions that apply
- Where general claims (eco-friendly, green or sustainable for example) are being made, the claim reflects the whole life cycle of the brand, product, business or service and is justified by the evidence
- If conditions (or caveats) apply to the claim, they’re clearly set out and can be understood by all
- The claim won’t mislead customers or other suppliers
- The claim doesn’t exaggerate its positive environmental impact, or contain anything untrue – whether clearly stated or implied
- Durability or disposability information is clearly explained and labelled
- The claim doesn’t miss out or hide information about the environmental impact that people need to make informed choices
- Information that really can’t fit into the claim can be easily accessed by customers in another way (QR code, website, etc.)
- Features or benefits that are necessary standard features or legal requirements of that product or service type, aren’t claimed as environmental benefits
- If a comparison is being used, the basis of it is fair and accurate, and is clear for all to understand
Conclusioni
Anche in questo caso mi pare opportuno ribadire l’importanza di un processo creativo sulla comunicazione del prodotto alimentare che, al contempo, sia pedissequamente seguito e approfonditamente analizzato dal punto di vista compliance. Tale modus operandi, a mio modestissimo parere e in base alla mia personale esperienza, conduce ad una drastica riduzione del rischio.
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